Capita spesso, durante una consulenza, di individuare criticità che il cliente nemmeno vede.

 

Come disse Edgar Shein, esperto nella consulenza di processo, quasi mai il cliente sa davvero cosa non vada; il più delle volte ci espone un falso problema, qualcosa che ritiene rilevante. In genere riguarda un elemento esterno, ad esempio un fornitore problematico, o dipendenti pigri e scontenti; si individua, inconsciamente, un capro espiatorio che possa spiegare ogni difficoltà apparsa in azienda negli ultimi anni.

 

Ma le criticità sono quasi sempre altrove; si pensi ad esempio a un imprenditore scontento del lavoro del proprio personale. Molti risolverebbero con un paio di corsi di formazione (da infliggere esclusivamente ai dipendenti) e, nei casi estremi, invocando un qualche tagliatore di teste che risolva al posto loro. Ma dietro a dei dipendenti demotivati ci sono spesso anni di tensioni con la Dirigenza, ingiustizie, meriti non riconosciuti, mansioni ripetitive e logoranti senza alcuna possibilità di emergere.

 

Lo scopo del consulente deve essere sempre quello di individuare i veri problemi, e sottoporli all’attenzione del cliente; è naturale incontrare delle resistenze, perché nessuno vorrebbe sentirsi dire che si è fatto un cattivo lavoro fino a quel momento, e ammettere di dover cambiare degli schemi adottati per anni equivale a dire “finora ho fatto tutto male, è colpa mia”.

 

Tuttavia, superate questo scoglio, si aprono tante porte, tante soluzioni, tanti scenari nuovi di crescita, e alla fine un’idea tira l’altra. Dopotutto, il cambiamento è un processo che non ha mai fine.

 

Ecco perché il lavoro iniziale, durante una consulenza, è la parte più delicata: ci vuole un occhio attento e un orecchio pronto, bisogna mettere insieme i dati, cominciare a formulare ipotesi senza incastrarsi in dei preconcetti, guadagnandosi la fiducia di chi abbiamo di fronte.

 

Dopodiché, si comincia a fare tante dovute premesse: il consulente non è un mago, o un medico, non c’è una medicina miracolosa che risolva tutto. Abbiamo delle proposte, ma andranno valutate e implementate insieme, in base alle necessità reali e alle priorità del cliente (che puntualmente cambiano durante il processo di assessment). Ma soprattutto c’è la fase di raccolta di dati e la fase di osservazione; se non conosco la vostra azienda, come potrei aiutarvi? Devo diventare uno di voi, arrivando anche a chiamare per nome i dipendenti.

 

E fino a qui, tutto bene: in genere c’è sempre massima disponibilità, è la fase di studio reciproco, poiché anche il cliente sta raccogliendo informazioni su di noi e sul nostro modo di lavorare.

 

Ed eccoci al momento cruciale: l’incontro in cui si presenta il report, o una bozza di esso. Ma non è la descrizione dell’azienda ad interessare al cliente – che ovviamente conosce già – quanto la nostra opinione.

 

La differenza tra un santone e un vero consulente, tuttavia, è proprio l’assenza di un’unica risposta semplice e definitiva: avviene così uno scambio di idee e opinioni, spunti di riflessione vengono condivisi e le soluzioni proposte sono tante. Il cliente non è alla mercé del consulente, ma avviene un lavoro in sinergia, una costante negoziazione delle priorità dell’intervento. Questo è il momento che fa la differenza, perché finalmente il cliente comprende quanto sia parte integrante del processo di consulenza, non un “malato” in balìa di un guaritore.

 

Le resistenze contro la consulenza che si è richiesta non sono rare, anzi sono un elemento chiave: sciogliere quei dubbi, rispondere alle domande e rassicurare fa parte del nostro compito. È normale e umano mettere dei muri quando ci si sente giudicati per qualcosa a cui teniamo, e un imprenditore impiega tempo, soldi e salute nella costruzione di un’azienda.

 

Ma più ci si lascia andare più si traggono benefici; non colpevolizzazione, ma responsabilizzazione. Il cliente non è la causa dei propri problemi, semmai è lui stesso la soluzione.